Mediterraneità del Segno

Mediterraneità del Segno

“Affinché una storia esista, oltre alla vocazione, uno scrittore deve avere talento. Il talento è una invenzione che si concretizza attraverso una scrittura, un ordine. Scrittura e ordine si padroneggiano con la tecnica: alla vocazione e al talento deve aggiungersi l’artigianato”                                                       Mario Vargas Llosa

La facoltà della mente umana che permette di dar vita a quel che ancora non esiste si chiama immaginazione. Solo l’immaginazione ci permette di pensare ad un diverso modo di progettare, costruire, indossare e far vivere sugli altri la propria opera, i propri gioielli.

La creatività è mossa sempre dall’immaginazione. L’immaginazione nasce dal desiderio, dal conflitto, perché tra il desiderio e il suo oggetto c’è la realtà. Muove da un rifiuto delle cose come stanno; le ordina, le sistema in un altro modo oppure le smonta, le scompone, le priva di senso, le sfigura e le fa diventare “altro”. L’immaginazione è l’impulso che sottostà alla prima idea, produce fantasia, ed è la fantasia che fa da guida alla creatività, mentre il ragionamento è sospeso; subentra in seconda lettura per definire, controllare e codificare il modello. Quando l’immaginazione è al lavoro, si smette di essere razionali e si comincia a desiderare. Cioè, a osservare. A sentire. A volere. A progettare. Più informazioni si hanno, più procedure, più tecniche si conoscono, più possibilità si hanno di mettere a frutto la propria creatività. Quando la mano incontra la materia; la materia si scontra con la tecnica. L’intervento dell’uomo sulla materia presuppone un profondo studio della tecnica. E’ grazie ad esso che si realizza ciò che ancora non esiste. L’arte si avvale della tecnica per manifestarsi altrimenti rimarrebbe un pensiero non applicato. La formazione, a mio avviso, si fonda sulla riproduzione cioè sulla conoscenza del già fatto. La ripetizione è implicita nell’apprendere, non si impara se non si rifà. Imparare significa padroneggiare il già detto, saper giocare tutti i giochi già fatti, raggiungere la conoscenza e il rispetto della materia; ambire ad un risultato “alto”.

La mia formazione è avvenuta presso il Museo Artistico Industriale di Roma, sezione d’oreficeria artistica fondata nel 1949 dal professore Orlando Paladino Orlandini. Un’aula grande, un padiglione accogliente, ragazzi di età differente uniti per creare, immaginare, crescere. Orlandini è arrivato nel momento giusto: ero nella fase in cui le forme interiori premono per uscire dal caos ed essere indirizzate verso un progetto di vita, di lavoro; mi insegnò il valore del disegno, dell’ideazione, della lavorazione.  Mi insegnò a credere in me e mi distrasse dagli odori della guerra.

Per stimolare la formazione di noi studenti, ci ripeteva che, spesso, il potenziale umano rimane irrisolto in noi stessi; l’uomo è incapace di vivere usando le proprie capacità. Solo quando riesce a guardare le cose, a leggerle con gli occhi della fantasia, della leggerezza, solo allora, sorprendendosi di se stesso, ne gode il valore.

Sento una profonda spiritualità, non solo per la natura, l’uomo, il mondo che mi circonda ma per gli oggetti che colmo di valenze, cui affido il domani. E’ una spiritualità laica e mediterranea: accuratezza, rispetto del fare, ricerca, bisogno di trasmettere emozione, sentimento nel lavoro. Un ludico fare è sempre presente nel mio pensiero, rende dialettico il rapporto gioia-dolore; mi permette di alleggerire il pesante, di unire l’anima al corpo, la tecnica all’idea e l’intuizione alla conoscenza. Un fare memore di significati, di sensibilità altre, di mondi fantastici interpretati con una non corrotta sensibilità e legati alla mediterraneità del segno. Il bello è una necessità interiore, un bisogno morale di purezza. In momenti grevi, dove la coscienza è sospesa nell’oppressione e nel dolore, l’io si aggrappa al bello come messaggio di pace e amore. Si manifesta in modi e forme non convenzionali, non necessariamente in un bello riconosciuto, canonizzato. Che cosa ha di bello un quadro come “La Danza” di Henri Matisse? Cinque corpi brutti, rossi contorti in un abbozzo di danza, ma è l’immagine giocosa, intrisa di una felicità melanconica, bella, pulita a cui mi aggrappo quando mi sento demotivato. Come si può dimenticare un qualcosa di così perfetto? La ricerca del bello nella forma, nella sua inquietudine, spesso nell’aggressività che lo sottende, mi spinge ad un eclettismo nel fare per dare visibilità a quella moltitudine di memorie che emergono febbrili e mi spingono ad ulteriori conoscenze.

Fausto Maria Franchi